Decalogo per una nuova politica industriale

L’Italia deve innanzi tutto sviluppare ciò che ha, mentre crea le condizioni per fare ciò che non ha.

Punto 1. ARTIGIANATO

Intorno a noi c’è un ampissimo mercato sottosviluppato che non può passare dall’analfabetismo industriale alla società di servizi post-industriale.
Solo l’Italia può essere punto di riferimento della prima modernizzazione economica delle società che vivono a Sud e ad Est del Mediterraneo. Per consentire l’evoluzione “biologica” o darwiniana di queste società il passaggio dalla società arcaica e agricola a quella di servizi deve comunque sviluppare, l’istruzione artigiana e professionale di milioni di lavoratori e di piccole imprese. Non dimenticando mai che queste sono una delle forze che ha consentito all’Italia di sopravvivere e tuttora le consente di competere in tutti i settori “di nicchia” che i paesi cosiddetti sviluppati non hanno più o hanno sostanzialmente abbandonato.
L’Italia può e deve diventare il polo mediterraneo dell’istruzione artigiana e professionale. La capacità tecnologica dei nostri dirigenti/quadri/ operai specializzati va messa al servizio di tutti i migranti potenziali o effettivi dell’area.
Il risultato può essere prudenzialmente quantizzato in: 100.000 posti di docenti specializzati (i “maestri” di una volta) e 1000 siti industriali recuperati per fare dell’Italia il grande centro di formazione del Mediterraneo.
Lo stesso discorso vale per le attività agricole “specialistiche”, di qualità e di nicchia. Le tecniche di formazione, marketing e vendita dei prodotti possono agevolmente avvalersi delle più avanzate tecnologie di IT alle quali oggi può avere facilmente accesso anche il semplice possessore di un telefono cellulare (non parliamo di personal computer). I giovani possono fare cose del passato imparando anche usando con le cose “del futuro”.

Punto 2. AUTO

L’Italia non può permettersi di perdere la grande industria. Deve quindi recuperare la leadership europea dell’automobile e “non” salvare la FIAT o la famiglia Agnelli. Il gruppo FIAT può e deve uscire dalla crisi con un piano interno del Governo perchè il nostro Paese non può rinunciare all’auto nè a tutto ciò che è connesso a questa industria.
Indipendentemente dai piani del management FIAT, o di GM, o della famiglia Agnelli, il governo deve avere una propria strategia. Lo sviluppo dell’auto ecologica è una necessità per lo sviluppo del Paese ed una opportunità per mantenere la grande industria dell’auto in Italia. Nessuna politica passiva di salvataggio: una grande, innovativa, politica di sviluppo. La scelta è chiara e direi obbligata: oggi metano, domani idrogeno. E’ necessario creare una rete di distributori di metano (non meno di cinquemila). Agevolare obbligare l’utilizzo dell’auto e del trasporto merci meno inquinante possibile, in particolare nelle aree urbane (come dire in tutta Italia). Fare un drastico piano, intelligentemente temporizzato, per sostituire tutto il parco automobilistico (merci e passeggeri) destinato all’impiego urbano.
Finanziare con FIAT (a FIAT) un grande investimento per la ricerca applicata e la sperimentazione dell’auto a idrogeno (cinque miliardi di euro in 5 anni sono una cifra che può fare la differenza effettiva con la concorrenza europea, asiatica ed americana). Del resto qualunque politica di assistenza e salvataggio costerebbe di più. E proprio l’esperienza FIAT ce lo insegna negli ultimi 15 anni. Sinora abbiamo finanziato, con risultati molto deludenti, la sopravvivenza. Ora finanziamo il rilancio “obbligando” la FIAT a seguire la politica del governo e non viceversa.
Questa è politica economica.

Punto 3. CHIMICA

Non si deve, non si può, permettere lo smantellamento della chimica italiana.
Quindi non la chimica agli arabi come oggi taluno semplicemente sostiene. Gli arabi possono anche avere un ruolo, ma gestito da noi, non viceversa. Noi dobbiamo mantenere tecnologie e mercato. E’ incredibile per
un paese che ha avuto Natta e Donegani dire che vende l’ultimo residuo della gloriosissima chimica italiana (e purtroppo costosissima per lo sviluppo del Mezzogiorno) ai paesi produttori di petrolio. Enichem e
Montedison, pur dopo le guerre chimiche degli anni 70, avevano la leadership di mercato europea e mondiale in almeno 8 settori della chimica di base. Chi ne ha consentito la perdita e lo smantellamento, chi oggi ne vuole la liquidazione, o non capisce nulla di politica industriale o lavora in malafede per altri concorrenti.
Enichem può rinascere in nuovi siti; lo spostamento di Marghera è un grande atto di politica industriale; così la concentrazione dei siti siciliani, sardi e pugliesi. Tutto ciò va accompagnato da un massiccio investimento
nella ricerca. Anche qui è realistica una cifra di 5 miliardi di euro per dar vita al nuovo Natta e al nuovo Donegani. E’ sin troppo ovvio che non si può fare ricerca nella chimica senza avere una grande industria chimica.
Basta del resto vedere cosa spende il paese nella chimica fatta da altri per rendersi conto della enormità del problema. Ma l’ENI che pure ha enormi risorse finanziarie e profitti che, grazie anche alla rendita metanifera sono oggi alle stelle, perchè non ha investito in quella chimica che si è ricomperata dal mercato nel 1990 a prezzi tanto alti? Se non credeva nella chimica
non doveva certo ricomprarsela una volta che l’aveva privatizzata.

Punto 4. ENERGIA

Una politica energetica mediterranea.

ENI ed ENEL, se guardano seriamente al di fuori delle frontiere, in particolare al Sud, possono facilmente fare dell’Italia il polo dello sviluppo energetico per l’Europa meridionale e l’Africa settentrionale. Oggi si presenta per l’energia una opportunità di sviluppo eccezionale. Stiamo attenti a difendere le rendite di posizione. La quota pubblica di ENI ed Enel consente ancora di indirizzare le scelte di queste società.
Lo scopo di dare sicurezza energetica all’Italia fu raggiunto sin dall’epoca di Mattei. La nazionalizzazione dell’energia fu un errore politico-economico colossale. Ma oggi abbiamo queste due potenti corazzate sul mercato: prima di cederle a prezzi di saldo nell’ipermercato delle privatizzazioni facciamo in modo che rendano un servizio strategico al Paese. L’energia è diventata di nuovo centrale nello sviluppo della società tecnologica e dei servizi. Nel Mediterraneo il confine tra pace e guerra è segnato spesso, oltre che dall’integralismo e dall’odio, dalla offensiva differenza tra ricchezza e povertà. Una grande politica energetica dell’intera regione, che dispone in taluni paesi a Sud dell’Italia di un grande potenziale di utilizzo ulteriore di gas e olio può contribuire non poco alla sicurezza ed allo sviluppo dell’area sud del Mediterraneo. Lo stesso discorso vale per taluni nuovi paesi nell’est europeo. Ma è necessaria una nuova dimensione internazionale di ENI ed ENEL. Società che debbono essere riorientate verso mercati di produzione e consumo diversi dall’Italia. Oggi il problema non è più, o non è solo, quello di portare energia a buon mercato in Italia (questo discorso del “buon mercato” è tutto da vedere. Abbiamo l’energia elettrica ed il gas più caro d’Europa).
Ma quello di esportare tecnologie, capacità manageriale, capitali e realizzare con le materie prime ancora abbondantemente disponibili una politica energetica sicura, competitiva, compatibile con l’ambiente e capace di generare sviluppo: riesportiamo in tecnologia ed investimenti quello cha abbiamo importato in materie prime. Anche se una crisi petrolifera non è all’orizzonte, questo è il momento per lo sviluppo di una reale integrazione energetica sud europea (e con l’est).
Se questa politica è accompagnata da una reale liberalizzazione dell’energia e del gas in Italia si ristabilirà automaticamente un ciclo virtuoso di sviluppo.
Nuovi gasdotti e nuovi elettrodotti porteranno energia a buon mercato in Italia (nel gas si può risparmiare sino al 50% dell’attuale prezzo); ed i grandi enti energetici ritroveranno slancio e prodotti non dalla gestione di
monopoli che non ci servono più e che hanno fatto il loro tempo, ma da una vigorosa attività imprenditoriale al servizio di una politica di area naturalmente sotto la leadership italiana. Si metteranno in moto investimenti giganteschi e lavoro per i cervelli e l’industria nazionale, e se ne avranno enormi vantaggi politici e di competitività.

Punto 4 bis. ACQUA

Lo stesso discorso vale per un’altra comodity che sta diventando preziosa: l’acqua.
In questo settore non abbiamo purtroppo molto da insegnare, ma, al contrario, molto da imparare. E’ questo il frutto non di mancanza di tecnologie, bensì di un uso scriteriato e talora criminale delle nostre risorse. Tuttavia se una crisi energetica non è all’orizzonte una crisi idrica è già drammatica sia in Italia sia in tutti i paesi a sud del Mediterraneo. Il Governo ha lanciato un ambizioso programma nel settore degli acquedotti. A parte il giudizio sulla sua realizzabilità qui il problema è talmente vasto da non essere stato compreso in tutta la sua portata. Una politica Mediterranea dell’acqua è certamente l’unico rimedio serio ad una crisi che può far impallidire le crisi petrolifere. L’acqua è un bene primordiale per lo sviluppo, l’agricoltura, la qualità della vita, il turismo, l’ambiente. La dissennata politica pubblica che abbiamo seguito in Italia va riveduta alle radici.
Da un lato la liberalizzazione, dall’altro la rigorosissima gestione delle risorse può farci recuperare il tempo perduto. Una grande politica dì ricerca, una vasta collaborazione, programmazione dell’area, una ricostruzione di un ecosistema in progressivo deterioramento è essenziale. Non vorremmo assistere alle prossime guerre per disporre di acqua e non più per il petrolio.
Le grandi concessioni francesi, Lyonnaise o Generale des eaux, sono esempi di come si crea una grande ed efficiente multi utilities partendo dal più umile e più abbondante dei prodotti: l’acqua. Anche in questo settore l’Italia può ritrovare una leadership tanto più necessaria in quanto i Paesi del Mediterraneo, ricchi di fonti energetiche, sono sempre più a rischio sull’acqua.
Un grande ente di ricerca, programmazione, monitoraggio, sviluppo sarebbe in questo caso necessario per accompagnare la politica di privatizzazione e di liberalizzazione del settore. Che, ripetiamolo, è centrale per lo sviluppo futuro più dello stesso petrolio. Mancano qui le grandi società nazionali. Ma si possono creare con una accorta politica di apertura e liberalizzazione unita ad una visione mediterranea del problema. Molti
si domandano se sia corretto far dipendere il rubinetto di casa a Roma dall’acqua che magari viene dal Montenegro. Nell’interdipendenza delle economie di queste aree c’è un potenziale di sviluppo e sicurezza per tutti e quindi i timori nazionalistici sono infondati. Si pensò lo stesso all’epoca dei gasdotti da Russia ed Algeria. L’acqua va posta al centro del dibattito Sud Mediterraneo esattamente come l’energia purtroppo dovendo partire noi da problemi di casa nostra già estremamente complessi sia per la prima che per la seconda.

Punto 5. INFRASTRUTTURE

Un sistema infrastrutturale per la centralità del paese (ponte logistico e di sviluppo tra Nord e Sud, Est ed Ovest).

Premessa: da venti anni l’Italia balbetta sulle infrastrutture. Se ne parla ovunque; si investono cifre da capogiro. Ma il sistema infrastrutturale rimane lo stesso di venti anni fa per servire un’economia che è cresciuta in
modo esponenziale ed una popolazione sempre più numerosa, mobile, esigente.
Non farà piacere sapere che abbiamo una dotazione infrastrutturale che è mediamente poco più della metè di quella che hanno paesi europei nostri produttori e concorrenti. Parliamo di infrastrutture fisiche (ferrovie,
aeroporti, porti etc.). Non farà piacere riconoscere che spendiamo più della Francia per nuove infrastrutture, che non piacciono.
Se proviamo a confrontare l’efficienza ed il risultato economico della gestione delle infrastrutture il risultato è ancora più deludente (tranne che per le autostrade, sulle quali abbiamo una posizione straordinaria in
Europa per la redditività del sistema; non certo per la sicurezza e l’efficienza).
Il problema di fondo è di tipo culturale: l’infrastruttura è vista come investimento per chi la realizza. La cultura del “costruttore” domina e sconvolge tutto il problema delle infrastrutture in Italia. Chi realizza il progetto è l’unico attore che interessa, che sceglie, condiziona chi decide.
Poco contano i gestori (ripeto tranne che nelle autostrade per il poco nobile obiettivo di creare più domanda possibile all’auto ed ai TIR); nulla contano i soli destinatari dell’infrastruttura: i cittadini. In Italia c’è una obiettiva “collusione” tra interessi legittimi e illegittimi (inclusi quelli mafiosi), nel sistema di decisione e realizzazione (si fa per dire) delle infrastrutture.
A questi “interessi” nazionali, si sommano facilmente gli “interessi” internazionali, che vogliono che le cose non avvengano per non disturbare i loro “interessi” (Nord Europa in primo luogo). Bisogna partire da questa considerazione prima di parlare di infrastrutture. Se oggi si lancia un ennesimo programma, ancor più importante dei precedenti e presentato come il fiore all’occhiello del Governo, senza aver prima risolto per chi, perché e come si fanno le infrastrutture allora sarebbe meglio non iniziarlo per niente.
Non c’è bisogno di avere la sfera di cristallo per dire che le opere non si faranno, o che costeranno cinque volte di più del previsto, che la costruzione richiederà tre volte più tempo del necessario etc.etc.
Prima bisogna cambiare mentalità , strutture, modalità realizzative, culture: e poi dire che si fa un programma infrastrutturale. Avere chi si vanta oggi pubblicamente che le ferrovie sono, e vogliono rimanere, il più grande ente di spesa dello Stato non è un buon segno. Specialmente se si tiene conto delle dichiarazioni di appena due o tre anni orsono. (l’A.V. non serve; le F.S. risparmiano sulle gare!). Oggi improvvisamente tutto è necessario (meno le gare) e un Km di F.S. costa dieci volte di più di sei anni fa (sempre senza gare).
Le infrastrutture oggi sono, se fatte così, in primo luogo un pericolo da evitare. Sinora ha vinto la cultura che si era cercato di combattere; quella del mattone (non parlo ovviamente dei pochi ottimi gruppi che trenta anni fa onoravano l’Italia nel mondo). La vera rivoluzione nelle infrastrutture avverrà quando si sconfiggerà la cultura del mattone e si passerà alla cultura del servizio.
Questa premessa è fondamentale per poter avviare un programma infrastrutturale (chi parla sa cosa vuoi dire mettersi contro gli interessi).
Ammesso che questo problema venga affrontato con realismo (non dico risolto) si potrà parlare del programma.

Cosa c’è da fare
Le infrastrutture sono la base dello sviluppo e la garanzia della sua continuità.
Debbono avere talune caratteristiche elementari:
a) Sapere chiaramente a cosa servono e quale è lo scopo cui sono destinate; ciò significa che debbono avere una loro elementare “etica”. Progetto, costo, tempi, gestione.
b) Essere inserite in una rete di altre infrastrutture e “dialogare” con queste (una autostrada che va sino ad un porto, un FS che va sino ad un aereo-porto, una intermodalità chiara e definita, una possibilità di scelta
per l’utente/cliente).
c) La capacità di adattamento. L’infrastruttura, essendo per sua natura un investimento di lunghissima durata, deve essere concepita sin dall’inizio in modo flessibile, e non riprogettata ogni dieci anni quando “non ce la fa più”.
Un piano infrastrutturale è estremamente complesso. E’ meglio affrontare il problema per settori, alla luce di un obiettivo generale. E’ errato sia sotto il profilo concettuale, che sotto quello finanziario e tecnico/ realizzativo, dire che in Italia si sta facendo “un piano per le infrastrutture”. Se si tiene conto che ogni lira investita direttamente in infrastrutture ne mette in moto automaticamente almeno tre di costo totale, di investimento, e di ricchezza, si comprende che un simile piano su tutto il Paese e per tutti i problemi infrastrutturali di 150 miliardi di euro rischia di essere un piano ingestibile in un periodo di tempo economicamente apprezzabile (e quindi politicamente visibile).
Occorre un piano di priorità (questo si può chiamare piano perchè è una scelta tra varie opzioni, rinunciando ad alcune e privilegiandone altre). La scelta è determinata dal mercato e dagli obiettivi che il sistema Italia si propone.
Ci piaccia o no noi oggi siamo dominati dal sistema infrastrutturale Nord Europeo ( e competiamo forse un po’ con Malta)..

Progetti

F.S.

Est – Ovest
• A.V. Torino – Venezia – Trieste – Milano – Genova – ammodernamento.
• Collegamenti con la Francia verso Ventimiglia a Modena e con il Frejus.
• Collegamenti con est Europa e con Germania (Brennero/Tarvisio)
Nord – Sud
• Ovviamente completamento A.V. per Napoli, con due diramazioni verso la Puglia e Reggio (queste ultime con ammodernamenti, non raddoppi)
(tenere ben presente che oggi le F.S. servono in primo luogo per le merci e che il concetto di servizio pubblico è finito)
• Il Ponte va discusso molto attentamente. Se è anche ferroviario e non c’è la ferrovia Messina – Palermo e Catania e Reggio – Napoli è un non senso. Ma se si deve fare tutto, e non solo l’opera del secolo, bisogna stimare bene i costi e sapere come finanziarli. Oggi l’operazione non è finanziabile con capitali privati!